Da Pechino alla Mongolia in Treno
Ero tornato a Pechino con un’altra idea e cioè cercare quello che era ancora rimasto della vecchia Cina prima della folle e demenziale rivoluzione industriale. Partii leggerissimo, come al solito. Dentro il mio vecchio zaino un paio di cambi più la mia felpa, una giacca leggera antipioggia, un paio di scarpe da trekking basse di eccelle qualità e un paio di sandali, una trousse con spazzolino da denti, un pezzo di sapone di Marsiglia, dentifricio e poco altro, le solite medicine di base, le mie due macchine fotografiche digitali e il portatile, quello da 10 pollici.
I primi giorni girai per Pechino che assomiglia sempre di più a New York, le nuvole di biciclette ferme ai semafori sono state cancellate, come è sparito il mercatino della seta che stava dietro il Museo dell’Opera Tradizionale. Non ci sono neanche più i risciò sostituiti da una metropolitana super moderna ed efficiente. Feci il turista, ma non mi piacque. Spinto da un’idea andai alla stazione centrale, la Beijing Railway Station e mi informai su di un treno che mi portasse a nord, fuori da lì e lontano da un mondo che non riconoscevo più. Trovai un treno che altri backpakers mi avevano suggerito, il Transmongolian che ripercorrendo l’antica via del te portava da Pechino a Ulan Baatar la capitale mongola, ma con lo stesso treno si può arrivare fino a Mosca. Comprai un biglietto di seconda classe per Erlyan’ sul confine mongolo e il giorno dopo lasciai Pechino senza rimpianti.
Alle sei del mattino il treno si mosse e lentamente. Non meno di quaranta vagoni erano attaccati ad una motrice diesel che sembrava impossibile potesse trascinare tutto quel peso. C’erano tre classi, una prima pretenziosa, un seconda comoda e la terza, quella per i disperati. I passeggeri erano in netta maggioranza russi, commercianti quasi tutti e cioè gente che andava in Cina comprava merci varie per rivendere poi a casa loro. Il treno era pieno all’inverosimile di gente, di scatoloni, di buste enormi di plastica e altro, tanto altro.
Le prime due ore di viaggio le passammo tutti insieme a sistemare dove possibile le nostre cose, alla fine era rimasto solo lo spazio sufficiente per stare seduti. Poi, iniziò la vita, anzi no, continuò. Il vagone si trasformò in un villaggio siberiano, c’era chi cucinava, chi dormiva, chi giocava a dadi o a scacchi e chi guardava fuori dal finestrino sognando. Verso mezzogiorno il treno si fermò a Datong, sei ore di viaggio per percorrere 370km, gran bella media, non c’è che dire. Sul treno salirono venditori di cibo e tutti comprarono da mangiare, io presi stufato di pecora e riso fritto non sapendo che la carne di pecora sarebbe diventato il mio cibo per il prossimo mese e mezzo fino a che credetti che avrei iniziato presto a belare anch’io. Seduti accanto a me c’era un ex pilota militare di Mig convertitosi a venditore di magliette, la moglie, un mastodonte biondo ossigenato e truccata in maniera esagerata, un ex prete ortodosso ostinato bevitore di vodka, una ragazza di Novgorod molto graziosa che parlava perfettamente inglese e che comprava cosmetici a Pechino che rivendeva a Mosca, un poliziotto che arrotondava lo stipendio comprando e rivendendo cannocchiali. Ci raccontammo di tutto facendo girare bottiglie di vodka che, una volta svuotate, finivano rotolando sotto i sedili. All’imbrunire, quando ormai eravamo quasi tutti ubriachi, il treno, dopo aver attraversato centinaia di chilometri di steppa desertica, arrivò a Erlyan’ sul confine mongolo, dove si fermò per quattro ore per i controlli doganali. Vidi passare furtivamente manciate di dollari o di rubli dalle mani dei passeggeri a quelle dei doganieri, a me non controllarono neanche il passaporto. Salutai tutti, scesi dal treno e un freddo pungente mi aggredì le ossa. Da li iniziò il mio viaggio attraverso la Mongolia.
Erlyan’ è la classica cittadina di confine e perciò multietnica che risente ancora di un antico comunismo che ormai non esiste più. Si trova in una zona assolutamente deserta e inospitale, ma è ordinata e soprattutto incredibilmente pulita. I vecchi palazzoni di regime la fanno da padroni, ma cosa ci sia dentro non l’ho mai saputo anche perché sono tutti chiusi, anzi no sbarrati. Passo il confine su di un torpedone e arrivo a Zamiin Uud, ormai sono in Mongolia. Una stazione ferroviaria, un paio di mercati pieni di merci cinesi, casette ordinate e due enormi leoni di fattura cinese in cemento dipinti di bianco che dovrebbero mettere paura o almeno rispetto a chi passa di li. Trovo da dormire, incredibile ma vero, in un campeggio di isbe, le casette rotonde di pelle di cammello tipiche della Siberia. Trovo un letto in verità, perché di dormire quella notte non se ne parlò proprio. Alle sei del mattino, ubriaco come forse non mai, facevo ancora a braccio di ferro con un mongolo mastodontico il quale non ci stava a perdere regolarmente. Alla fine lui crollò e io non ce la feci ad arrivare alla mia branda. Il deserto dei Gobi è fra i più inospitali del pianeta e va preso molto sul serio, ardente di giorno, gelido la notte. Un siberiano mi offrì un passaggio sul suo camion scarico che io accettai e da li iniziò il mio viaggio attraverso un paese per certi versi affascinante anche se per altri assolutamente incredibile. Branchi di pelosissimi dromedari e di piccoli cavalli vagavano in quel nulla in cerca di cibo improbabile.
Un sole abbacinante rendeva l’aria quasi irrespirabile anche se smossa da un vento costante che non riuscivo a capire da quale direzione venisse. Dopo alcune ore di viaggio, durante il quale il tipo mi raccontò tutta la sua esistenza, arrivammo a Sajnsand. Lo salutai, lo ringraziai e mi lasciai scaricare accanto al Bars Center, una palazzina verde di tre piani stile vagamente anglosassone dove sapevo che c’era una specie di ritrovo di viaggiatori liberi. In effetti incontrai un pò di tutto, li accanto trovai una camera per la notte e mi aggregai a dei coreani, ad un paio di francesi e ad una ragazza finlandese bruciata dal sole per andare a cena. La solita pecora, patate bollite e carote fatte come le patate, da bere l’inesorabile, annichilente e devastante Vodka. Mi fermai con loro 5 giorni poi, alla spicciolata, ogni uno di noi andò per la propria strada. Facemmo delle escursioni nel deserto in groppa ai dromedari, il mal di mare è garantito, ma ne vale assolutamente la pena. Visioni e gente incredibili hanno fatto da scenario immaginato, ma mai in verità sperato così stupefacente. Ne ho attraversati tanti di deserti, ma come i Gobi mai. E’ marrone chiaro, con, alcune volte, striature di marrone scuro, appena ondulato, di una monotonia folle rotta da rari, piccolissimi irragionevoli spazzi erbosi dove si abbrancano dromedari e cavalli a brucare quel già poco che c’è. Dal nulla spuntano le famose isbe rotonde che sono le case dei nomadi, qualche bambino, un paio di cani dalla coda arricciata, una decina di dromedari da soma e niente altro, cosa ci stiano a fare li non l’ho mai capito, eppure mi sono informato, ho chiesto. Ci vivono, mi hanno sempre tutti risposto. Lungo la strada che porta ad Ulan Bator corre la ferrovia sulla quale solo una volta ho visto transitare un treno passeggeri, però la strada la attraversa centinaia di volte con passaggi a livello assolutamente custoditi ed in ordine perfetto. Da li ci ho messo altri 10 giorni per arrivare alla capitale. Bella devo dire, circondata da vegetazione rigogliosa composta essenzialmente di un tipo di albero che non ho riconosciuto. Stile assolutamente ex sovietico, ma anche post moderno, statue dorate di Buddha un pò ovunque e gente gentile e assolutamente ospitale. In un ostello ben organizzato da una anziana signora scozzese di Edimburgo ho trovato da dormire e mi sono fermato una settimana anche perché li c’è molto da vedere se si ha il tempo per farlo. Sempre in torpedone sono arrivato a Sukhbaatar sul confine siberiano e da li al lago Bajkal, ma questa è un’altra storia. Ferruccio
Finalmente vedo che qualche italiano se ne va in giro per il Mondo senza organizzazione alle spalle, sono contento! Io sono un 65enne che ha girato parecchio, partendo dagli anni’70, ho recentemente scritto un libro che dedico a tutti i viaggiatori. Ciao
Grazie Giovanni, per fortuna di viaggiatori indipendenti itliani ci sono e sono anche niente male 😉