Pappagalli verdi di Gino Strada

Pappagalli Verdi: Cronache di un chirurgo di guerra

di Gino Strada

edito da Feltrinelli

Quando i pappagalli non regalano un sorriso, ma lo cancellano

Pappagalli verdi: cronache di un chirurgo di guerra; non è un libro di viaggi: non ci racconta storie di città, bensì di persone, storie tristi, infelici. Si tratta di storie disperate, di gente disperata, però non senza quel pizzico di speranza che serve per andare avanti a lottare, comunque sia. Gino Strada non è un giornalista, né uno scrittore – almeno non di professione -, ma in un certo senso è un viaggiatore, anche se non viaggi per hobby ma per curare vittime di guerra, spesso civili. Gino Strada è un chirurgo di guerra che da più di vent’anni gira il mondo aiutando indistintamente non solo bambini, donne e anziani, ma anche soldati e guerriglieri. Nel 1994 ha fondato Emergency, una ONG italiana che offre cure gratuite alle vittime di conflitti armati, delle mine antiuomo e della povertà.

Pappagalli VerdiMa veniamo al libro. I racconti di Strada non seguono un ordine cronologico o geografico, spaziano negli anni e si situano in Afganistan piuttosto che in Perù, in Somalia piuttosto che in Kurdistan. Sono testimonianze che non possono lasciare indifferenti e sono, per usare le parole dell’autore, “dei flash trascritti come ricordi ritrovati.” Dalle prime pagine si apprezza lo spirito solidale e il sostegno reciproco che si crea all’interno di un gruppo come Emergency, composto da persone che si trovano quotidianamente confrontate con la distruzione della guerra. Il team è eterogeneo e multietnico, ma questo non solo non ne ostacola il lavoro, bensì fa sì che diano tutto per una causa che va oltre la nazionalità stampata in un passaporto. Spesso i medici di Emergency si trovano nella terribile situazione di dover decidere chi, tra la massa di feriti, deve essere curato prima. Ed è proprio in questo tipo di situazione – dover scegliere tra un bambino innocente e un soldato – che la lotta tra ragione e sentimento tocca il suo apice: bisogna salvare il maggior numero di vite, siano esse più o meno colpevoli per la drammatica circostanza in cui si trovano.

Quello che segue è un estratto del libro in cui i pappagalli verdi del titolo prendono forma e ci si rivelano in tutta la loro crudele essenza.

Un vecchio afgano con i sandali rotti e infangati, e il turbante con la coda che scendeva fino alla cintura, stava accanto al figlio di sei anni nel pronto soccorso dell’ospedale di Quetta.

Il bambino si chiamava Khalil e aveva il volto e le mani o quel che ne restava, coperti da abbondanti fasciature. Stava sdraiato, immobile, la camicia annerita dall’esplosione. Qualcuno aveva strappato una manica e ne aveva fatto un laccio, legato stretto sul braccio destro per fermare l’emorragia.

“È stato ferito da una mina giocattolo, quelle che i russi tirano sui nostri villaggi” disse Mubarak, l’infermiere che faceva anche da interprete, avvicinandosi con un catino di acqua e una spugna.

Non ci credo, è solo propaganda, ho pensato, osservando Mubarak che tagliava i vestiti e iniziava a lavare il torace del bambino, sfregando energicamente come se stesse strigliando un cavallo. Non si è neanche mosso, il bambino, non un lamento.

In sala operatoria ho tolto le bende: la mano destra non c’era più, sostituita da un’orrenda poltiglia simile a un cavolfiore bruciacchiato, tre dita della sinistra completamente spappolate.

mine giocattolo - pappagalli verdi
mine giocattolo – pappagalli verdi

Avrà preso in mano una granata, mi sono detto.

Sarebbero passati solo tre giorni, prima di ricevere in ospedale un caso analogo, ancora un bambino. All’uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di plastica verde scuro, bruciacchiato dall’esplosione.

“Guarda, questo è un pezzo di mina giocattolo, l’hanno raccolto sul luogo dell’esplosione. I nostri vecchi le chiamano pappagalli verdi…” e si mette a disegnare la forma della mina: dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembra una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il pezzo di plastica che ho in mano, è l’estremità dell’ala. “…Vengono giù a migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota. Chiedi ad Abdullah, l’autista dell’ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una l’anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco.”

Mine giocattolo, studiate per mutilare bambini. Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire… (p. 22)

Dopo aver letto un testo del genere non possono che sorgere spontanee almeno due domande: chi c’è dietro questi oggetti infernali? Ingegneri, chimici, generali e politici che dopo aver accompagnato i figli a scuola vanno al lavoro per progettare il “giocattolo” perfetto, la mina più efficace, la più terribile. Quella che colpisce, storpia, brucia, acceca i bambini; quella che prima si lascia prendere, lascia che i ragazzini ci giochino e si divertano, poi li uccide. Ingegneri, chimici, generali e politici, si diceva, che una volta arrivati a casa dal lavoro, abbracciano moglie e figli, come mariti gentili e padri premurosi.

E poi, ma perché proprio i bambini? Ce lo racconta quest’altra tremenda testimonianza dell’autore:

Un cecchino di Sarajevo si lascia intervistare in una stanza quasi buia. Mi sembra incredibile: è una donna. Una donna che spara a un bambino di sei anni? Perché?

“Tra vent’anni ne avrebbe avuti ventisei”, è la risposta che l’interprete traduce.

Il freddo diventa più intenso, fa freddo dentro. L’intervista finisce lì, non c’è altra domanda possibile. (p. 117)

I pappagalli verdi, questi giocattoli mortali, sono la dimostrazione, ancora una volta, che la crudeltà dell’uomo non ha limiti. Gino Strada, Emergency e tutti quelli che ne fanno parte, rappresentano quel pizzico di speranza che ci fa andare avanti a lottare, comunque sia.

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