Da Psicologo a Videomaker: 8 anni in viaggio in moto per l’America

Mi chiamo Claudio Giovenzana, fino al 2008 lavoravo come psicologo in Italia, poi ho preso a mia vecchia moto, il mio orsacchiotto e ho iniziato a girare per l’America.
Sono diventato foto/videomaker collaborando prima con istituzioni e clienti lungo il cammino e poi su internet lavorando con agenzie internazionali.
Vivo viaggiando dal 2008, ho pubblicato con Feltrinelli il libro “Quante Strade” e sul mio Blog www.longwalk.it vari racconti, fotografie, articoli sul viaggio e sulla ricerca della felicità.

 

1. Anche tu sei psicologo come me, cosa ti ha fatto fare il salto e lasciare la psicologia per darti alla fotografia e ai video?

Non ho mai pensato a un salto di professione, l’idea era un salto di stile di vita. Provare a fare un grande viaggio sapendo solo perché, né come, né per quanto né in che modo. Quando ho iniziato ad attraversare il Canada vivevo ancora tra il sogno e la realtà, cercavo in qualche modo il cammino dei grandi viaggiatori e scrittori, la psicologia come professione rimaneva uno strumento impraticabile durante il viaggio. Troppo collegata al nostro contesto linguistico.
Dopo le prime settimane oltre a sognare ho fatto anche un esame di realtà, piuttosto crudele devo ammettere, e ho capito che avrei dovuto cercare alla svelta un modo per sopravvivere. Non volevo “racimolare soldi”, ma intentare la follia di una lavoro che assomigliasse al raccontare quell’esperienza di Strada che stavo vivendo. Dopo mesi a bombardare le caselle di posta di tutte le riviste italiane, ho trovato qualche sporadica collaborazione e per ogni articolo che scrivevo venivano sempre chieste  fotografie in abbondanza. La foto già mi piaceva a un livello amatoriale e quindi ho iniziato ad applicarmici intensamente. Ho sperimentato tantissimo, prima per accompagnare in modo degno i racconti con le immagini e poi facendo diventare le immagini, fisse o in movimento, un lavoro a sé stante. Ho sempre tenuto viva la passione per scrivere, ma ho dovuto concentrare le mie energie sulla fotografia e sui video per sopravvivere, per collaborare anche fuori dal contesto ristretto che impone scrivere nella nostra lingua. Così la psicologia è rimasta come un sesto senso per scavare meglio nell’esperienza di viaggio, la scrittura per raccontarla e la fotografia per dargli un tocco di realtà.

 claudio giovenzana

2. La prima parte della tua vita come nomade digitale è stata molto dura cosa ti ha spinto ad andare avanti e a non gettare la spugna?

Nei momenti più brutti del viaggio pensavo ai momenti “normali” della vita di prima, quella stanziale. Non c’era paragone. Anche chiuso in tenda sotto una tempesta di 18 ore sentivo che stavo scrivendo una pagina importantissima della mia vita e che lì, in quel cartoccio di nylon preso a calci dalla pioggia, era molto meglio che dentro la routine che vivevo in Italia.
A volte ero disperato, un cane arrabbiato che abbaia contro tutto e tutti, ma toccando il fondo riuscivo sempre a raccogliere nuove energie e idee, a trasformare il rancore in nuovi tentativi. Mi arrabbiavo mi sfinivo cadevo e mi rialzavo. Avevo da un lato l’ebbrezza della libertà, il gusto di rifarmi daccapo una vita su misura, di esplorare… dall’altra avevo la paura di fallire e tornare a casa con la coda tra le gambe, pronto a fingere di accettare la vita che avevo da pochi mesi lasciato e non volevo più.
Non riuscire era una grande paura ma non una opzione.

3. Quando hai capito che questa era la tua strada?

Lo sentivo ogni volta che prendevo la moto per esplorare un pezzo di Messico, ogni volta che mi sedevo su un sacco di iuta nel baretto dove lavorava la mia futura ragazza e iniziavo a scrivere quell’unico articolo con il quale sopravvivevo ogni mese. Quando leggevo Terzani, Bettinelli, Sepulveda, Chatwin, Cacucci e chiunque altro portava sulle pagine dei miei libri le emozioni di posti e genti lontane.
Anche consolidarmi professionalmente mi faceva sentire pian piano l’emergere di una nuova identità, prima i piccoli lavori per piccole attività commerciali, poi i grandi lavori per paesi e per istituzioni importanti, infine le agenzie internazionali con le quali collaboro oggi. Anche i soldi sono stati un controvalore all’impegno profondo, all’inizio mai o mal remunerato, che con gli anni ha iniziato ad arrivare dimostrando a me stesso (e ai detrattori che non mancano mai) che invece quello poteva essere uno stile di vita sostenibile.
viaggio in moto in america

4. Quale è la tua maniera di viaggiare lavorando?

Viaggio, vedo, registro immagini. Poi da un lato scrivo articoli (purtroppo diretti all’Italia, quindi rari e mal pagati) e dall’altro vendo le immagini migliori alle agenzie che le distribuiscono al loro enorme portfolio clienti.
Ogni tanto tengo corsi di fotografia localmente.
Scrivere è per me ancora uno strumento potente sia per fissare e rielaborare memorie altrimenti labili, che per esercitarmi e arricchire lo stile. Tuttavia nonostante un libro pubblicato con una casa editrice importante, il resto sono riviste con le quali non riesco a instaurare una costanza mensile, che non sono culturali anche se apprezzano il modo diretto, profondo e spesso comico con il quale racconto. Quindi ho deciso che, tra un articolo e l’altro, la mia scrittura la dedico ai lettori del Blog: la mia povera bestia digitale che sto riscattando pian piano dall’oblio dove l’ho abbandonata quando mi concentravo sui lavori fotografici che pagavano qualcosa.
Le immagini invece le carico su internet dove vengono passate al vaglio da esaminatori e poi messe in vendita. Tutto mercato angolofono ovviamente.
È stato un lavoro durissimo all’inizio, ma adesso funziona alla grande.

5. Sono anni che viaggi in moto, come è nata? Lati positivi e negativi.

La moto l’ho sognata da ragazzo, era una cosa divertente prima e “cavalleresca” poi. Era l’indipendenza di andare dove volevi prima e il biglietto per una libertà che stavo ancora immaginando poi.
Con il tempo ho fatto incontrare il viaggio e questo veicolo a due ruote, ho iniziato ad apprezzare la sua possibilità di portarti più in là dei piedi e dei pedali ma in un modo che sempre ti facesse sentire a contatto con il mondo, senza l’isolamento e l’ingombro dell’automobile, come un’estensione di te.
Poi in viaggio ho apprezzato tanto un suo altro vantaggio: quello di permetterti di fermarti “a metà” tra un posto e l’altro, tra un punto di partenza e uno di arrivo e scoprire proprio lì in mezzo altri luoghi e storie. Non essere schiavo della rotta di un pullman o di un taxi ogni volta che devi esplorare qualche dintorno o periferia.
Un altro lato positivo ha a che vedere con la relazione di cura che devi avere con lei, capirne i problemi e il comportamento, è una forma “di qualità” come diceva Robert Pirsig ne “lo Zen e l’arte della manutenzione della mtocicletta“. Su questo aspetto ci sono anche note meno positive come il fatto che da 8 anni viaggio in luoghi dove non esistono ricambi e nessuno sa nemmeno pronunciarne la marca. Sono solo e quando succede qualcosa (in una moto incidentata e raddrizzata, quarta mano, che non vede un garage o una officina dal 2008 le cose succedono!) se sai identificare il problema e cavartela ok… ma se non ci riesci inizia a prenderti lo sconforto o l’ira funesta. Una volta l’ho presa a calci gridandole “puttana!” sotto sguardi allibiti, un’altra volta ho dovuto rianimarla angosciato esattamente tra la frontiera del Messico con il Guatemala, due mesi fa per colpa di una buca ho spezzato la trasmissione e mi sono messo seduto a una pompa di benzina prendendomi la faccia tra le mani disperato.
Sino ad ora sono sempre riuscito a cavarmela. Complice la mia compagna Olga e i miei amici in Italia che si prodigano di consigli.
Altro limite è averla sempre al sicuro, parcheggiata dove non sia soggetta ad atti vandalici (check!) o furti (check!). Poi non posso “abbandonarla” in un paese per più di un paio di mesi quando torno in Italia. Aggiungiamo anche che quando ti sposti non puoi scegliere nessuna opzione che non sia “via terra” e in ultimo le frontiere talvolta sono una rottura di palle quando hai un veicolo che le deve attraversare. Lì trovi il campionario di coglioni più selezionato che il governo possa offrirti e far entrare la moto può essere più spiacevole di far entrare una supposta…
Infine il mondo della moto ruota troppo intorno alla vanità, alla moda e alle prestazioni… questo produce qualche volta un idea del viaggio più focalizzato “all’impresa”, al chilometraggio. Meno del viaggio fatto di esperienza, di racconto, di ispirazione, di ricerca, di cambiamento. Alcuni viaggiatori usano il viaggio per la moto e non la moto per il viaggio.
Quindi un altro limite del viaggiare con la moto è il motocentrismo, per fare un paragone è come se i *backpackers* fossero solo interessati a parlare solo dei loro piedi che li hanno portati qui e là. Rendo l’idea?
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6. Cosa significa per te viaggiare con lentezza?

Vuol dire mettere la geografia dopo l’ispirazione, lasciare “la meta” in secondo piano rispetto all’esperienza e spendere il tempo non solo per arrivare, ma per conoscere. Il tempo nella musica scandisce un ritmo, credo che  ognuno di noi viaggiatori abbia un ritmo che scandisce l’arrivare e il partire. Se lo sbagli in un senso il risultato è che ti stai fermando troppo a lungo quando in realtà la tua esperienza è terminata, la noia di solito ti avvisa. Quando lo sbagli nell’altro senso invece stai correndo troppo e hai la sensazione di perderti qualcosa d’importante, ma in quel caso è troppo tardi, sei già passato oltre. Anni fa, dopo 60 mila km ero ancora a un terzo di continente, ancora in Messico, mentre altri motociclisti con 60.000 km avevano fatto, per via direttissima e saltando “qualche continente”, il cosidetto “giro del mondo” dal quale poi hanno tratto ovviamente il solito libro e hanno fatto le solite apparizioni pubbliche.  Io invece avevo fatto 45.000 km solo in Messico, dal Guatemala ero tornato indietro solo perché mi sentivo solo e avevo conosciuto una ragazza… Poi sono andato con Greenpeace perché avevo letto che Sepulveda da giovane aveva militato con loro formando forse una parte della sua coscienza di scrittore, poi la Croce Rossa, poi i parchi naturali protetti dai militari dove mi sono infilato per fotografare migliaia di tartarughe, poi la fame e i primi lavori come fotografo, poi ….
Insomma, ho spezzato ogni traiettoria per esigenze di cuore, di sopravvivenza e di esperienza, talvolta ho esagerato e sono stato troppo lento, altre volte volte come in Canada sono stato troppo veloce. Adesso sto nel mio ritmo… e non è da Rock&Roll.

7. Sulla base di cosa scegli un itinerario o una destinazione?

La moto, la curiosità e la forma del continente hanno impostato l’idea di andare da Nord a Sud nel continente americano. Questo è stato il mio canovaccio generale. Nei singoli paesi faccio itinerari abbozzati incrociando le località turistiche classiche con quello che mi raccomanda la gente e con l’ospitalità che mi offrono vari amici. Mettendo insieme questi “dati” mi faccio una idea e vado.
 viaggiare in moto canada

8. Per te perché il Latinoamerica?

Avevo una fascinazione da libri e da film, poi non avrei avuto menate doganali con la moto o documenti assurdi da fare, avrei avuto anche una vicinanza linguistica per conoscere meglio le persone e probabilmente non sarebbe scoppiata una guerra da qualche parte durante il mio tragitto come succede in Africa o Asia.
Il Latinoamerica come diceva Galeano ha “le vene aperte”, c’è passione a fiumi e purtroppo anche fiumi di sangue, c’è la dignità degli sconfitti di ogni ribellione, di ogni governo schifoso e di ogni mercato dei grandi “esportatori di democrazia” eppure in queste condizioni ridotte ai minimi termini torna fuori l’umanità ai suoi massimi: la fratellanza, la vicinanza, l’aiuto reciproco, il sorriso. Quelle cose che noi spesso lamentiamo di aver perduto nelle nostre città moderne, quei luoghi dove si avvicinano fisicamente persone che poi si sentono sempre più lontane le une dalle altre. Il Latinoamerica è un po’ questo per me, insieme purtroppo a tanti problemi ed episodi personali che non auguro a nessuno.

9. Come gestisci il rapporto con chi è a casa?

È forte questo tema.
Un mio amico, dopo una rimpatrio bellissimo, mi ha mandato l’indomani questo messaggio: “I veri amici sono quelli che anche quando non li vedi da un anno è come se fosse passato un solo giorno.” Vero, anche se ho perso matrimoni, nascite, cambi importanti di domicilio e di lavoro… Io non sono stato presente in molti dei loro passi importanti della vita e loro che non sono molto avvezzi alle comunicazioni telematiche hanno perso i miei. La cosa bella è che quando torno è tutto entusiasmo, comunione e voglia di portarsi al pari con le vite degli uni e degli altri. Quindi nonostante i rapporti con molti amici siano gestiti male a distanza avviene una super-compensazione ogni anno quando ritorno per pochi mesi.
Con la famiglia da un lato è migliorata la comunicazione, depurata da molte cose inutili e riempita di un senso profondo insieme a tanti aneddoti da raccontare. Dall’altro lato i miei stanno invecchiando soli e mio papa pure male con problemi di lavoro che stanno diventando personali e troppo pesanti.
Questo, come figlio unico, non mi fa stare bene. Forse sto vivendo la vita migliore possibile e se stessi lì, dopo un tempo lungo, inizierei a soffocare e diventare un rompipalle di poco conforto. Se mollassi tutto manderei a gambe all’aria come minimo il mio lavoro e poi dovrei rinunciare alla libertà che mi dà in modo così “fisico” il  viaggio e tutto quello annesso che sto costruendo. Comunque una volta “finito” il continente americano voglio stare con loro non solo per i pochi mesi in cui mi è permesso “abbandonare” la moto per tornare.
Quindi come famiglia per certi versi siamo più lontani, ma per altri molto più vicini di quando eravamo sotto lo stesso tetto. Ci manchiamo gli uni agli altri, solo che io ho la fortuna di avere una vita meravigliosa d’incontri ed esperienze, loro no.

viaggio in moto

10. Cosa rappresenta il tuo “orsacchiotto”?

Il “Toporso”, frutto dell’amore inspiegabile e fisicamente doloroso, tra un topo e un orso mi è stato regalato dalla nascita e io lo considero un simbolo di “bambinità”. Un memento a non prendermi troppo sul serio, ma anche a tenere viva la curiosità tipica di un bambino insieme alla voglia di giocare e scoprire.
Nel libro Quante strade noi due ci parliamo mentre facciamo i primi 10.000 km di viaggio in Canada, dentro il libro lui è un alter-ego che spesso mi fa incazzare e con il quale litigo ma alla fine mi aiuta sempre a elaborare le profonde trasformazioni che mi accadono.
Immaginati un bambino che parla con il suo pupazzo… idem, solo che sia io che lui abbiamo passato i 35!
Un giorno in Messico guidavo con lui che stava dietro, ben legato alla montagna di bagagli, qualche automobilista mi ha fatto una foto e la foto è finita in televisione accompagnata dalla scritta “Si vede che tutti i motociclisti non sono *machi*”. Anche se loro volevano fare ironia credo che la frase colga nel segno la questione. Sul mio blog, sin dal 2008, da qualche parte compare la famosa strofa di  Bob Dylan “Quante strade deve percorrere un Uomo prima che possa chiamarsi Uomo?”  Ecco perché io e il Toporso facciamo tante strade.
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