La storia lascia il segno e porta a modificare gli atteggiamenti e le interpretazioni.
Quando le ferite del passato influenzano le relazioni del presente
Non so se la storia insegna. Troppo spesso abbiamo la prova del contrario. Tanto nel nostro piccolo cosmo personale quanto a livello mondiale, errori più o meno gravi si ripetono una e un’altra volta. Quante volte ci abbiamo pensato, tra noi e noi, che tal o tal altro sbaglio non l’avremmo mai più ripetuto? Quante volte abbiamo sentito condannare atrocità e guerre da leader mondiali che nel loro stesso paese, a causa della loro stessa politica, ghettizzano minoranze, rubano e lasciano morire di fame la gente? Tutto sommato, credo che la storia non insegna un bel niente. Ma, senza dubbio, la storia, segna; e non sempre le cicatrici che lascia si vedono a prima vista. Serve tempo, o, almeno, un contatto più profondo e circostanze che lascino intravedere le ferite del passato. E poco importa se il passato è recente o no.
All’origine di quello che sto dicendo ci sono i cinque mesi che ho trascorso in Nicaragua all’inizio dell’anno scorso. Un’esperienza che, oltre a farmi arrivare alle conclusioni di cui sopra, mi ha fatto capire che il modo di interagire con le persone, di porre una domanda o affrontare una questione cambia a dipendenza dei luoghi, e anche questo a causa del passato. Non invento niente se dico che la cultura e le abitudini con le quali cresciamo sono come i fili di una marionetta, ci guidano e ci portano a confrontarci con il resto del mondo in una maniera piuttosto che in un’altra. Il problema nasce quando una cultura millenaria e ricca di storia come quella dei popoli centroamericani, per esempio, è obbligata a soffrire per così tanto tempo l’oppressione straniera che la nobiltà delle origini quasi scompare sostituita dalla sottomissione cronica. Gli spagnoli prima, gli Stati Uniti e l’oligarchia fascista nazionale poi, hanno distrutto l’autostima di un’intera popolazione. E il fatto più tragico è che il virus si propaga di generazione in generazione. Questo non ha niente a che fare con l’orgoglio di essere salvadoregni o nicaraguensi o con l’amore verso la propria terra, anzi; quello che cambia in questa gente quando si passa un immaginario punto di non ritorno è la postura verso chi si associa con l’invasore.
In Nicaragua, penso che si possa suddividere il comportamento della gente che si confronta con il bianco, con l’occidentale almeno in due grandi gruppi, tenendo sempre in conto le eccezioni. Da una parte c’è chi si prostra sempre davanti allo straniero, in una specie di servilismo che sembra far parte ormai del loro essere nicaraguensi. Quasi come una caratteristica culturale che per sua stessa natura si percepisce come qualcosa di normale. La sottomissione porta a subire sempre e vedere l’interlocutore straniero come una minaccia. Troppo spesso in Nicaragua avevo l’impressione di trovarmi di fronte gente con un complesso cronico d’inferiorità verso il “gringo”, l’uomo bianco. Questo li portava a recepire un commento innocente come un giudizio. Poi, c’è chi che, come a voler equilibrare questo gap – sia esso economico o sociale -, affronta lo straniero con un eccesso di sicurezza che non fa altro che mostrare le ferite del passato sotto un’altra forma. Sarebbe comunque stupido voler etichettare una nazione intera; sicuramente, ci sono pure quelli che non entrano affatto in nessuna delle due categorie che ho appena descritto; resto però dell’idea che quest’ultimi rappresenti, purtroppo, solamente una minoranza all’interno del paese.
Come dicevo all’inizio, una situazione di questo tipo ci obbliga a cambiare il nostro modo di comunicare con la gente, le relazioni stesse devono costruirsi seguendo uno schema nuovo, serve una strategia differente da quella che consideriamo normale. Sto parlando di sottigliezze, ai nostri occhi, che sulla bilancia dell’amicizia o del semplice rapporto lavorativo hanno un peso decisivo. Sta quindi a noi, capitani involontari della conversazione, scegliere bene le parole da usare. Così, un innocente ma diretto “perché stai facendo così?”, sarà probabilmente percepito come un “perché stai facendo così (che non va bene)…e non cosà (come avrei fatto io)?” Se saremo capaci di far tesoro dell’esperienza, quando vorremo rifare la stessa domanda la formuleremo, per esempio, in questo modo: “Mi sembra molto interessante quello che stai dicendo, potresti spiegarmi che strategia stai usando?”.
Bene, penso che il concetto sia chiaro, mi fermo qui perché questo si sta trasformando in una lezione di psicologia. L’esperta è Francesca, lascio quindi a lei il compito di confermare, completare o criticare quello che ho appena detto. Personalmente, nel mio piccolo mondo Centroamericano, penso di essere riuscito a non inciampare due volte nella stessa pietra. Purtroppo, nonostante questo, sono comunque anche sicuro di non essere sempre riuscito a far passare il messaggio che desideravo comunicare. Certe cose è più facile scriverle in un post che applicarle con successo alla vita reale. Questa è la mia esperienza, a voi è mai capitato di trovarvi in una situazione di questo tipo? A cosa avete pensato e come avete reagito?